Su Alberto Bregani


Solo i poeti sanno raccontare ed evocare sogni dolcissimi e inebrianti
Di Maurizio Rebuzzini*

Non c’era nulla di simile a un fiore sulla terra,  solo bianche ossa secche. Così le raccolsi”
Georgia O’Keeffe

Ogni volta che si affronta il discorso fotografico, come si sta per fare ora, è assolutamente necessaria una premessa, almeno una.  Per quanto il pubblico (dei non addetti) sia convinto che la fotografia del vero e dal vero abbia una stretta parentela con la realtà… niente è più lontano da questa ipotesi, poco le è meno aderente. Infatti, a sostanziosa e sostanziale differenza da ogni altra forma di comunicazione ed espressione (non soltanto visiva), la fotografia è sì vincolata dalla e alla presenza di un soggetto fisico (sia naturale, sia allestito artificiosamente), ma tra la raffigurazione indispensabile e la rappresentazione volontaria e consapevole ci sta un autore, la cui azione è guidata e indirizzata dalle sue esperienze, convinzioni e intenzioni, oltre che dai suoi ovvi pre-concetti. Perché no?

Ciò premesso, ancor prima di incontrare la fotografia di montagna di Alberto Bregani – spunto e sollecitazione di altre riflessioni che ne inquadrino spessore e valore-, sono di conforto e sottolineatura opinioni in conferma. Da e con Hubertus von Amelunxen (docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali alla Graduate School di Saas-Fee, Svizzera); «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta;  il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica» (in The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History; 1998). E poi, sulla falsa riga dell’uso di strumenti ottici (presuntamente e pretestuosamente intesi “oggettivi”), da e con Lucia Moholy: «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte» (in Cento anni di fotografia 1839-1939; prima e unica edizione italiana, 2008).

In effetti, è vero. L’esercizio della fotografia dipende anche dal sapiente uso e impiego dei suoi strumenti basilari, che l’autore-fotografo deve saper controllare e guidare, per orientare la propria espressività e creatività secondo intenzioni: sintassi di un linguaggio che, come ogni altro, presuppone proprie declinazioni e rivelazioni. In similitudine, punteggiatura, tempistica, evocazione e riconoscimento della scrittura e parola. Da capo: la fotografia è raffigurativa per natura, ma è rappresentativa e interpretativa per volontà (e capacità).

La fotografia è raffigurativa per natura, ma è rappresentativa e interpretativa per volontà (e capacità).

Nello specifico odierno: la fotografia di montagna, in montagna, di Alberto Bregani è raffigurativa per irrinunciabile necessità, ma rappresentativa e interpretativa per indiscutibili intenzioni (e capacità). Il soggetto dichiarato ed esplicito induce verso altre considerazioni, ancora in forma di premessa. Solitamente, la fotografia di montagna, quale è questa di Alberto Bregani, è afflitta da condizionamenti che non le consentono di trasmigrare – come invece sarebbe lecito che potesse fare, che facesse – dall’ambito degli addetti e appassionati del soggetto (la montagna, per l’appunto) a quello della sua coinvolgente espressività (la fotografia, nel proprio complesso). Tanto è vero che, dopo un paio di esempi dell’Ottocento, la fotografia di montagna è per lo più esclusa da ogni racconto e resoconto storico, sempre circoscritto al solo reportage e poco di più (frammenti di moda, qualcosa di intenzionalmente artistico e niente d’altro).

Dopo le prodezze dell’italiano Vittorio Sella (1859-1943) e dei fratelli francesi Louis-Auguste e Auguste-Rosalie Bisson (1814-1876 e 1826-1900), il buio, l’oblio. Eppure, per essere ben eseguita e opportunamente realizzata, la fotografia di montagna richiede talmente tanto sacrificio, tanta disciplina e altrettanta etica, da stabilire presto una straordinaria linea demarcatrice: esiste e si manifesta soltanto una bella ed efficace fotografia di montagna. Non ne può esistere, né se ne può manifestare una brutta, perché la sua realizzazione è selettiva (al contrario di tutta l’altra fotografia del vero e dal vero, che ai nostri giorni è soprattutto definita, condizionata e frequentata da “belle” fotografie inutili).

la fotografia di montagna richiede talmente tanto sacrificio, tanta disciplina e altrettanta etica, da stabilire presto una straordinaria linea demarcatrice: esiste e si manifesta soltanto una bella ed efficace fotografia di montagna.

Quelle di Alberto Bregani sono fotografie di montagna – e subito preciso che sono fantastiche fotografie di montagna – che non si limitano all’osservazione da lontano, come invece fanno altri autori, anche glorificati, che si tengono a debita distanza. Egli fotografa salendo sulle montagne, percorrendone i sentieri, raggiungendo luoghi preclusi ai più (che stanno ben discosti da tali e tanti sacrifici fisici), respirando l’aria in quota, sintonizzando il battito del suo cuore sul palpito della montagna.

Così agendo, altresì guidato da quella eccezionale competenza personale che gli fa intuire le ore legittime per la luce migliore e più adeguata (la fotografia è luce), Alberto Bregani applica e declina due condizioni fondanti della fotografia, di entrambe delle quali è perfettamente consapevole, oltre che convinto. Una: (da e con Edward Steichen, fotografo a New York all’inizio del Novecento) «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo, e ogni uomo a se stesso». Due: (divergendo dalla concezione diffusa che allunga la fotografia dalla pittura) sa bene quanto e come la fotografia sia soprattutto illusione. Da cui, uno dei principali debiti di riconoscenza dell’espressività fotografica dipende dal teatro, dalla messa in scena, dal suo modo di pronunciarsi.

Osservando le fotografie di montagna (in montagna) di Alberto Bregani, ognuno di noi dischiude le porte di un mondo amabilmente rappresentato. In mostra di stampe originarie, dalle pagine di questa avvincente monografia (che introduce anche la possibilità di un ritmo visivo individuale), dal monitor del computer… prende vita una teatralità visiva che esclude qualsivoglia ambiente circostante, per dare esistenza alle sole immagini. In una suggestiva sequenza temporale, dal soggetto alla sua abile rappresentazione, dal vero alla sua immagine, i passi compiuti da Alberto Bregani diventano nostri.

Per quanto fisicamente fermi e fissi in un luogo a noi confortevole, sollecitati e invitati da una interpretazione fotografica a dir poco superlativa, il nostro cuore guida la mente verso orizzonti lontani, spazi sconosciuti, atmosfere appassionanti. È proprio vero, in ripetizione doverosa: quando ben eseguita, ed è il caso di Alberto Bregani, «la fotografia spiega l’uomo all’uomo, e ogni uomo a se stesso».

Quando ben eseguita, ed è il caso di Alberto Bregani, la fotografia spiega l’uomo all’uomo, e ogni uomo a se stesso.

Questa sua fotografia è realizzata con tale e tanto amore, sia per il soggetto (montagna), sia per la mediazione (fotografia), sia per l’osservatore destinatario (noi tutti), che effettivamente vale le proverbiali mille parole. Anche se, siamo onesti, ci sono altrettante parole irraggiungibili dalla fotografia. E poi, ancora, ci sono fotografie, come queste di Alberto Bregani, che evocano parole sentite, fino a chiarirle: (da e con Giacomo Leopardi) «L’anima s’immagina quello che non vede». E, allora, L’infinito: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / […] Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare. «Indipendentemente dal desiderio del piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, che può concepire le cose che non sono, e in cui le cose reali non sono. Considerando la tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere.

A questo punto, rivolgendoci sia agli addetti della fotografia – che sono consapevoli dei suoi stilemi -, sia al pubblico generico, che deve esserne informato, è obbligatoria una nota tecnica relativa alla costruzione interpretativa di Alberto Bregani. Dopo aver sottolineato l’alta qualità formale delle sue stampe bianconero, che compongono i tratti di un linguaggio espressivo eccezionalmente efficace, richiamiamo l’attenzione sulle composizioni quadrate. Non prima di aver rivelato anche che la fotografia è comunque una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, che Alberto Bregani applica con particolare diligenza.

La composizione quadrata non è un vezzo, ma è lessico, sintassi. Anzitutto confortevole, ma non è questo il problema (seppure lo sia, anche), la composizione quadrata induce lo sguardo dell’osservatore: evita che spazi da destra a sinistra, piuttosto che dall’alto al basso, senza trovare un punto di attenzione, e impone una concentrazione assoluta e inderogabile. Però, attenzione, non si tratta di uno stratagemma, magari del tipo di quelli attraverso i quali l’abile prestigiatore distoglie la concentrazione del pubblico. Al contrario, è una sapiente declinazione, che dalla rispettosa interpretazione del soggetto approda alla complice intesa con l’osservatore. Lo sguardo si posa lieve su visioni fotografiche che raggiungono immediatamente il cuore: è illusione, è teatro… è fotografia autentica.

La composizione quadrata non è un vezzo, ma è lessico, sintassi.

Concludo.
Prima di altro, prima di tutto, la fotografia è un gesto di amore. Il suo fascino estraniante rimanda alla parola mai detta, alla felicità dell’esistenza, al sogno che ciascuno ha nel proprio cuore. Ancora. Quando è interpretata per rivelare, ovverosia «spiegare l’uomo all’uomo», come nel caso della montagna di Alberto Bregani, la fotografia diventa poesia. E solo i poeti, come è Alberto Bregani, sanno raccontare ed evocare sogni dolcissimi e inebrianti.

Infine. Guardatele bene queste fotografie (poesie). Indipendentemente dal soggetto-pretesto, come anche allineati al soggetto-pretesto, quando le osserviamo, queste fotografie valgono per tutto quanto ciascuno di noi trova in se stesso. Missione della fotografia.
M.R.


* = Prefazione a “Dentro e Fuori le Cime. Dolomiti di Brenta tra l’occhio e il passo” di Alberto Bregani. Il Margine (TN), 2012

Maurizio Rebuzzini
È docente a incarico di Storia della Fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia) | È editore e direttore di FOTOgraphia, mensile di riflessione fotografica | Dal 1972, si occupa di fotografia, scrive di linguaggio, tecnica e costume della fotografia. (www.mauriziorebuzzini.it )
(Foto di Marco Cavina © )