E nel cielo si disegnò la folgore

E nel cielo si disegnò la folgore

Giancarlo Bregani e Angelo Vanelli

E nel cielo si disegnò la folgore –
“Prima” direttissima parete sud Monte Disgrazia – Agosto 1955

Tratto da “C’è sempre per ognuno una Montagna” di Giancarlo Bregani ( 1930-1987) – Premio Guido Rey per letteratura di montagna 1957 | Premio Maria Brunaccini  letteratura di montagna 1967) 

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©ALBERTO BREGANI


| Overture |
Lugubre il suo nome ma stupendo di linee e di aspetto. Monte Disgrazia | Dicono che tale nome gli venga, per estensione, dal nome dato dai valligiani all’ erba liscosa, fredda e scivolosa degli alti pascoli, quelli più soggetto alla neve ed al ghiaccio: “desglacia” | Dicono altri che il desiderio di italianizzare tutto ciò che sapeva di Austria non appena liberi dalla sua dominazione cambiò il soprannome che il Monte Disgrazia aveva: “Monte dei Guai”, dovuto al fatto che i pascoli della Val di Mello, ai piedi della montagna appartenevano appunto ad una famiglia antica austriaca, detta “dei Guai”, in “Monte della Disgrazia”, prima, e “Monte Disgrazia”, poi. Dicono. Ma il suo nome vero, il nome che sempre i cartografi gli avevano dato prima di tale trasformazione ingiusta, è veramente degno di lui, della sua maestà ed imponenza: “ Pizzo Bello” | Su questo nobile monte ho compiuto le mie più belle salite anche se, su altre pareti, in altri luoghi delle Retiche, ho forse effettuato salite più difficili |  Badile, Cima Castello, Zocca, Roseg, Scerscen, Bernina, Cresta Guzza, Piz Palù, Ortles, Gran Zebrù, per dire solo delle cime più belle | Ciò che il Disgrazia mi ha però donato, nella bella e nella cattiva sorte, e ciò che io ho dato a lui, resta la parte migliore.  Di noi due.  Monte Disgrazia.
(Giancarlo Bregani – 1955)

|- Qualcosa urta violentemente la mia spalla, una, due, tre volte. Impiego parecchio tempo per risvegliarmi e comprendere che altro non è se non la rude mano del mio compagno. Buio pesto attorno, odore poco piacevole di corpi umani ammassati in poche cuccette, lieve russare di alcuni dormienti.
«Che vuoi?»
«Andiamo?»
«Che ore sono?»
Un dialogo che vive di sole domande non dura certo a lungo, inoltre non mi riesce di star desto. La risposta non arriva. Mi giunge invece un altro scrollone.
«Allora, andiamo?»
«Che ore sono?»
«Le una!»

Mi desto di colpo: restando addormentato non potrei inveire con proprietà e lucidità. Da un’ora solamente siamo a letto, dopo esserci accordati per una sveglia alle tre e mezza… ed Angelo già sente bruciare il sacro fuoco nelle vene. Le una… Ormai sono sveglio e non mi riuscirà più di prender sonno. «Va bene, andiamo. Torneremo più presto». Silenti topi d’albergo in panni montanari scivoliamo furtivi lungo la scala di legno fino al pianterreno. La luce lunare tra le imposte socchiuse ci risparmia urtoni contro le panche della sala. L’aria fredda della notte contrasta mirabilmente con il caldo della camerata e ci sveglia completamente, frizionandoci il cervello. Lunga e laboriosa operazione per accendere la stufetta di ghisa, mentre Angelo prepara lo zaino, mio ormai prossimo fedele compagno per tutta la giornata Giuseppe scende per farci le raccomandazioni e per augurarci una bella salita.
«Grazie, Pin, ma non è una cosa molto difficile, lo sai».
La colazione. Sono le due di domenica 7 agosto. «Abbiamo tutto?»
«Sì, anche la macchina da presa».
«Allora possiamo andare».
«Ciao, Giuseppe»
«Ciao, ci vediamo in vetta».
«D’accordo, verso le undici”.

Attacco Parete Sud ( 1952)

La notte è una bella donna in abito nero. La luna, dal viso stupido ed indifferente, illumina un mondo irreale, popolato di streghe e di folletti che ci spiano mentre ci avviamo tra i massi accatastati dietro il rifugio. Il cielo è pulito, limpido; nelle valli non ristagna alcun filo di nebbia. È questa l’ora più bella della notte, l’ara delle guardie notturne, l’ora delle levatrici, l’ora dei fornai, l’ora degli alpinisti che affrontano lunghe salite Appena fuori dal rifugio, pochi passi, e il sentiero morenico si inabissa nell‘ombra. Qui la luna tace. Scendiamo con cautela, in silenzio, cercando l’appoggio sicuro col piede, alla fioca luce delle torce elettriche. Di tanto in tanto parte un sasso e risveglia rumori lungo la ripida china, par che la montagna crolli improvvisamente.

«Sasso!!»
«L’ho sentito!!! »
Al termine di questo Calvario all’ingiù, un lungo conoide di neve ci aiuta a raggiungere il ghiacciaio con una divertente scivolata. Camminiamo ora a mezza costa, tenendoci sotto le rocce di Cornarossa. Poco più avanti la luce lunare ci attende nuovamente, tra i «penitentes», curiosi pinnacoli di ghiaccio, belli a vedersi, ma rovinosi per le caviglie. Angelo avanti, io poco più indietro: così ormai per tutto il giorno e alla fine, come il solito, io avrò a noia la toppa colorata sul retro dei suoi pantaloni. Il ghiacciaio sussurra sommesso di acque che il gelo tiene ancora legate. In alto, di fronte a noi, si erge il Disgrazia. Non mi fermo, incantato come altre volte, a guardarlo, lo conosco ormai troppo bene, ne ricordo i sassi mobili delle creste e gli appigli di almeno sei vie diverse.

L’angolo che ancora non conosco, al sommo del grande canalone nevoso dove spesso rombano le grosse valanghe, l’erta parete rossobruna che con gli occhi dell’anima vedo lassù in alta, mi impedisce di guardarla. Forse ne ho timore. Forse. Ci dirigiamo veloci verso l’imboccatura del canalone, alla nostra destra. Siamo di parecchio fuori dalla pista normale che, fra breve, vedrà numerose cordate. Noi siamo soli, ed il ghiacciaio, da qui, sembra un altro, sembra nuovo. Ci leghiamo, compiendo il solito rituale. Corda da sessanta metri, doppia, legamento a spalla. Ramponi ai piedi, piccozza nella destra. Ci muoviamo: la passeggiata è finita ed ora si lavora. Bocca sgangherata e sdentata ci irride la crepaccia sotto il canale: passiamo su un ponte sottile e malfido. Quando passo io cede di un buon metro.

Angelo, su nel canale, lavora di piccozza sul ghiaccio verde, sgranando il suo rosario di imprecazioni. Per me inizia la pioggia di ghiaccioli e di sassi che, salvo brevi interruzioni, durerà fino in vetta. Destino dei «secondi». Mi alleno alle schivate, come un pugile, ma non mi diverto. Dopo due tiri di corda, Angelo, mosso da compassione, mi manda in testa. O forse perché c’è molto da scalinare. Accetto di buon grado e mi faccio tutto il resto del canalone, in piena forma. Quando riusciamo a toglierci dal solco di scarica delle valanghe e dei detriti, siamo già alti sul canale. Il sole è arrivato da poco sulle rocce alla nostra sinistra. La neve sente il nemico e smotta un poco sotto i piedi. Angelo sale, poi vado io, riparte lui, una fisarmonica monotona dai tasti uguali che sviluppa il tema del canalone. Piccoli punti neri sul ghiacciaio ci chiamano a gran voce. Lungo la pista normale cinque o sei cordate sono ferme ad ammirare il nostro lavoro di cesello sul ripido canale. Giuseppe, riconoscibilissimo, ci fa gli auguri. Una persona, sola, in mezzo al ghiacciaio, si gode la nostra salita.
«Gli chiediamo il prezzo del biglietto?»
«Lavora! »
Angelo, intrattabile come al solito.


Il canale si fa vertiginoso e scorre lento sotto i nostri passi. Qualche frammento di roccia ronza a pochi metri. Siamo talmente stufi di questo budello che quasi corriamo. Ci troviamo così a sbattere il naso contro le rocce basali della bastionata che regge la vetta. Un pilastro a piombo, pochi appigli, roccia non buona. La via che avevamo in animo di seguire inizia molto più in basso e a sinistra. Angelo afferma che non se la sente di scendere tra piccole slavine e i sassi lungo i settanta gradi del canalino. Vuole attaccare lì dove si trova. Sono le otto e trenta. Una filaccia di nebbia si aggira tra le rocce ed i pilastri. Quando mi volto verso valle non scorgo più nulla. Solo un gran banco di nebbie. In poco più di trenta minuti il cielo si è incupito. Sopra le nostre teste anche la parete scompare nell’ ovatta. Sassi frombolano nel canale con frequenza di cinque minuti in cinque minuti. Non abbiamo altra scelta ragionevole che andare in su. Un esiguo listello di roccia poco sopra la neve ci offre il destro per esibirci in un numero di alta acrobazia per toglierci i ramponi. Angelo riprende la testa della cordata. In roccia si ritrova nel suo elemento preferito e ci si tuffa con la foga del puledro di razza all’alzarsi dei nastri di partenza, con l’istinto dello scultore che trae la forma dalla materia a colpi di mazzuolo, con la poetica sensibilità del musicista davanti alla tastiera.

Va su di stile, senza sforzo apparente, ondeggiando lentamente sui passaggi più ostici. Di tanto in tanto sento battere il suo martello nasuto contro i banchi di vetrato, specchi inutili su una roccia già tanto avara di appigli buoni. In quei momenti, le corde non scorrono più nelle mie mani ed il dondolio che le agita è sufficientemente esplicativo per me. Attraverso i dieci millimetri di canapa passano le comunicazioni, giungono messaggi ora concisi, ora meno. Le parole, scarse, quasi non servono. Siamo già abbastanza in alto, su uno spigolo che sporge nettamente dalla concava parete. Tra le folate di nebbia vediamo in alto, sulla destra, una enorme breccia. È l’unico punto di riferimento che abbiamo per poter comprendere quanto manca all’uscita in cresta o in vetta. Sento il primo chiodo che canta. In un momento tutto arcigno l’unica nota lieta è il canto di quel chiodo. Ancora un tratto abbastanza semplice dopo il difficile passaggio. Poi, fermi. A questo punto, regia perfetta, volteggiano i primi fiocchi di neve. Evidentemente non si tratta solo di nebbia. Per il momento siamo preoccupati solo dal passaggio che abbiamo di fronte.

Facile, all’apparenza: un buon diedro, non del tutto verticale, onestamente gradinata. In condizioni normali l’avremmo passato col sorriso sulle labbra. Oggi non riusciamo a sorridere. E neppure a passare. La colpa è del vetrato: nero, duro, spesso. Inutile pestare col martello: volano scintille, scaglie, crolla l’intera montagna, però il piede poi non tiene, gli appigli sembrano anguille vive. Angelo, montone dalla testa dura, si incaponisce e quasi ha la bava alla bocca per l’ira. Considero l’opportunità di aggirare l’ostacolo, ma non c’è altro da fare.
«Siamo fermi».
«Bene, sediamoci, fumiamo una sigaretta e beviamo qualcosa».
«Non far lo scemo. Bisogna trovare un’altra soluzione».
«Già provato. O ci si rompe il grugno su di lì o torniamo a casa».
«Cribbio, e pensare che sarebbe un passaggio facile!»
«Sarebbe, ma non lo è, con tutto quel ghiaccio».
Va a finire con Angelo che si infila deciso i ramponi, pianta due chiodi, si esibisce in una azione di forza, supera il passaggio, si toglie i ramponi e prosegue. Anche quel maledetto punto è superato.

In compenso Angelo, per rimettersi un attimo i guanti, ne perde uno. Mi passa davanti e non faccio a tempo ad afferrarlo. Va giù diritto, senza toccare roccia, poi rotola all’impazzata nel canale nevoso, finché scompare nella nebbia. Con la manovra dei ramponi oltrepasso a mia volta il punto. Come i «pionieri» abbiamo avuto anche noi il nostro «mauvais pas»! Possiamo ora dare un’ occhiata generale alla situazione. La nebbia è ancora fitta e la nevicata aumenta di intensità. Sui terrazzini e le placche la neve diviene più alta di minuto in minuto e si incolla, portata dal vento. Calcoliamo che manchino circa cento metri alla vetta. Angelo sostiene che usciremo a destra, sulla cresta orientale, con argomentazione serrata. lo ribadisco la mia tesi che sbucheremo diritti diritti in vetta. Guardiamo l’ora. La probabilità di incontrarci con Giuseppe, in cima, è giù sfumata da un paio d’ore. Lui e la sua cordata sono in discesa da molto tempo. Abbiamo udito i suoi richiami dall’alto, ma non abbiamo risposto per paura di staccare qualche sasso. Siamo in ritardo.

Nello zaino la macchina da presa è un peso inutile. Siamo carichi di viveri ma non abbiamo un attimo di respiro per utilizzarli. Zucchero a zollette e prugne secche sono il nostro unico alimento, per il momento. Torno in testa io, per tre tiri di corda. Attualmente faccio lo spazzino su una stretta cengia che ho avuto la fortuna di trovare. Angelo mi espone il dubbio che, la nostra, sia una via nuova. Effettivamente non esiste il minimo segno del passaggio dell’uomo. Da questo istante in poi, Angelo mi ripeterà fino alla nausea questa sua convinzione. Risulterà che aveva ragione. lo comincio ad essere stufo. Stufo soprattutto di togliere chiodi che assolutamente non desiderano abbandonare la roccia o che fanno il possibile per sfuggirti di mano, e a volte ci riescono. Sono stufo di prender sassi in testa, sono tutto bernoccoluto ed in alcuni punti sanguinante. Il freddo e la neve fanno da emostatico.

Pian pianino, dopo un tiro di corda di «quarto» secco che inoltre ci fa sudare per la presenza del solito vetrato, lo spigolo attenua la sua verticalità, si appiana contro la parete, questa si inclina, si apre e, di tra le nebbie non si scorge più il nero cupo delle rocce sopra la testa. Si indovina il cielo. Siamo agli ultimi trenta metri. Un tiro di corda.
«Vai Angelo, ormai ci siamo».
«Lo credo bene…».
Sentiamo odore di vetta, odore di spuntino, odore di vittoria, di discesa, di sole, di riposo, di nuove salite. Un odore particolare, una sensazione fisica ben precisa. La vetta non ce la siamo ancora guadagnata. C’è un passaggio mal sagomato, formato da un doppio strapiombo, limitato a sinistra da una placca completamente levigata e a cinquanta gradi. Angelo mette un chiodo, poi un altro. Si aggrappa, brancica con le mani, è quasi fuori, ma il tettuccio al di sopra del primo strapiombo lo rovescia all’indietro. Non è piacevole fare scatti sulle rocce né della mia testa un comodo supporto per i suoi piedi: ma lo faccio ed evito così che voli. La faccenda si ripete identica poco dopo.

Siamo anche alquanto stanchi. Al terzo assalto, finalmente, riesce sfruttando un sapiente gioco di equilibrio. Angelo è in vetta e me lo comunica gioiosamente. Avevo ragione io Tocca a me. Martello il primo chiodo, che esce facilmente. Salgo fin sotto lo strapiombo. C’è il secondo chiodo: data la mia posizione e la trazione delle corde dall’alto, non mi riesce di sganciare il moschettone. Faccio mollare le corde. Aggrappato con una sola mano cerco di sbrogliarmela. Le punte delle piccozze, infilate nel maledettissimo sacco sulla mia schiena, urtano contro il tettuccio e mi ricacciano giù. Voletto.

Tornato alla comoda posizione di partenza tiro il fiato e cerco di rianimare il muscolo del braccio destro, rimasto alquanto addormentato. Riprovo a superare il passaggio, e sono daccapo. Però il chiodo esce di colpo per l’azione delle corde durante il mio volo, cosicché pendolando mi trovo in cima alla placca sulla sinistra. Incastro velocemente un braccio in una spaccatura che si è parata davanti agli occhi e mantengo così la posizione inaspettatamente conquistata. Angelo, stupìto, mi vede spuntare da tutt’altra parte, afferra al volo la situazione e, con alcune energiche bracciate di corda, mi porta a salvamento. Lo stile è andato a farsi benedire, ma certe volte meglio le ossa intere che l’eleganza. Angelo dista da me non più di dieci metri: dieci metri di dolce pendenza, facilissimi. A quattro gambe tiro il fiato gravemente compromesso dagli strattoni della corda sui fianchi. Il mio compagno, appoggiato al traliccio di ferro che orna la vetta, recupera le corde e parla di sosta e recita il menù del pranzo. Dice che anche in piena tormenta non vuole rinunciare al thé che ci siamo portati appresso per quattordici ore e a tutte le altre cose. Dice che ormai la via normale ci è tanto nota da poterla scendere ad occhi bendati.


Sono le 16,30
Qualcosa mi risucchia contro le rocce per poi respingermi di colpo, mentre un sasso viene a sbattere violentemente sulla mia fronte. Urlo, accecato dal sangue, rizzandomi in piedi. Angelo mi guarda preoccupato, non s’è ancora accorto. Sotto la berretta di lana i capelli prendono a ronzare, un dolore tremendo, mentre chiodi e piccozze sibilano come mosconi infuriati. Il sangue mi cola sul viso copioso, ma sono troppo spaventato, anzi terrorizzato per accorgermene: ho «sentito» il fulmine attraverso le rocce prima ancora che il temporale si sia scatenato sopra di noi.

Siamo in vetta al Disgrazia, enorme parafulmine isolato della zona intera, carichi di ferro, accanto ad un segnale trigonometrico metallico alto tre metri. Getto la piccozza ad Angelo e mi lancio versa la cresta di discesa, urlando «Scappiamo i fulmini! Se stiamo qui ci lasciamo la pelle. Corri, Angelo, corri, perdìo! ».
Angelo mi crede improvvisamente impazzito. Ma non ha il tempo di far qualcosa. Sopra di noi, sotto e dentro di noi s’avventa qualcosa di strano, di orrendo, di irreale. Qualcosa che mai più vorrei riprovare e che mai riuscirò a descrivere così come l’ho provato. Riprendo i sensi sulla cresta, i piedi sul versante nord, il viso su quella sud. Un odore acre ed impossibile permea l’aria e fa tossire ad ogni boccata. Ozono puro.

Non appena ricomincio a ragionare, comprendo che il fulmine è scoppiato sopra di noi a brevissima distanza cadendo sulla vetta con tutta la sua furia. Tra la mia piccozza piantata nella neve e me, sta una superficie immacolata di neve e lo spazio misura il mio volo sotto la spinta della folgore. Non so quanti metri. So i passi che ho fatto per tornare su, dieci, quindici, gridando, piangendo, pregando. Angelo è seduto, immobile, appoggiato al pilastro di ferro. La testa tra le ginocchia. Non risponde alle mie invocazioni, non si muove. Lo raggiungo.

«Angelo, alzati… il fulmine, andiamo via… ne arriva un altro … Madonna santa, alzati… andiamo, andiamo Angelo… ti prego, perdìo, muoviti!! ». Lo scuoto, gli alzo il viso. È nero, gli occhi aperti, fissi, come due lame di ghiaccio. Non c’è vita interiore in quello sguardo. Fa paura, così, tra il grigio sporco dell’aria attorno, contro il cielo fuliggine e la neve bianca.Ho perso la testa. Mi butto su un sasso, prego, piango, mi rialzo, schiaffeggio l’amico, l’istinto animale di conservazione tenta di farmi sciogliere dalla corda e fuggire, lasciandolo lì. Un secondo fulmine scoppia a pochi passi, sollevando una pioggia di neve e sassi. Ci appiattisce entrambi per terra. Centinaia di aghi dolorosi si piantano nella pelle. Mi rimetto a scuotere l’amico, disperatamente.

Di scatto questi si rianima, si alza:
«Ma “lei” che fa? È diventato matto? Che vuole? »
«Angelo, sono io…».
«Ma se ne vada! Non mi rompa l’anima. Mi lasci stare». Angelo è impazzito. Non mi riconosce più, vaneggia, è convinto di essere a casa, d’inverno. Piange per il freddo alle mani, senza guanti. Una striscia di capelli al sommo del capo è bruciata, come per il passaggio di una fiamma. Mi rendo improvvisamente conto della realtà. Sono solo con una persona fuori senno. Il temporale aumenta di intensità, piovono le folgori da ogni lato ed una di esse, meglio indirizzata, potrebbe metter fine alla nostra ascensione ed a quelle che sarebbero potute venire. Metter fine alle nostre vite.

Carichi di ferro come siamo, non sarebbe poi una difficile impresa. Unica soluzione è quella di mettersi in strada per discendere, sperando in Dio e che i fulmini cadano sulla vetta e meno sulle creste. Mi scaravento in discesa, portandomi appresso le due piccozze. Forse sono un po’ pazzo anch’io. Scivolo. Cado sulla cresta, affondo nella neve fresca, mezzo metro. Riprendo a correre. Al termine dei trenta metri di corda mi fermo, mi assicuro alle piccozze incrociate e piantate nella neve, mi metto a tirar le corde a strattoni sempre più decisi. Obbligo l’amico a camminare.

Forse non tutte le facoltà del compagno sono sopite, forse la stessa mano miracolosa che mi ha più volte impedito di inabissarmi sulla parete nord o sud, guida ancora i suoi passi nelle buche che io ho lasciato nella neve, forse è ancora il suo istinto di alpinista che sopravvive. Non lo so. Arriva fino a me, lo faccio sedere  cavalcioni sulla sottile cresta, gli cedo i miei guanti. Riprendo la discesa. A tratti assai frequenti i fulmini mi sollevano da terra e poi mi ripiombano giù con violenza. Mi duole il capo per il continuo vibrare dei
capelli. Arriviamo al Cavallo di Bronzo, masso verticale di alcuni metri, passaggio stupidissimo, una volta famoso. Scendo. Non connetto, penso che Angelo possa seguirmi. Angelo, in piedi sull’orlo del salto, non sa che fare. Devo tornar su.

«Vieni, Angelo, siamo al Cavallo di Bronzo».
«Oh, no! Come faccio, è difficile! »
«Angelo, come puoi dirlo, dopo tutto quello che hai fatto?»
«No, no non scendo. Ho paura». Piange.
Guido i suoi piedi sugli appigli. Scendiamo assieme, rischiando ad ogni metro di volare. Il tempo passa veloce, troppo veloce. Sulla sottile crestina nevosa, al sommo della vertiginosa parete Nord, passiamo a cavalcioni. Il vento, fortissimo, minaccia ad ogni istante di strapparci via. Metto Angelo davanti a me, lo abbranco, lo spingo. Sento le mie mani nude come fossero spranghe di ferro. Le batto un po’, cercando di ridar loro calore. Scendiamo. Il tuono non romba più, la folgore si è quasi spenta. Nevica intensamente e non vediamo a più di quattro metri. Abbiamo lasciato la Vetta tre ore fa.

Abbandonata la cresta, mentre sta scendendo un pendio facilmente valangoso, tra masse di neve che corrono, avide, assieme a me, sento una leggera trazione della corda. Mi fermo e mi volto. Scorgo, nella nebbia, la sagoma dell’amico saldamente piazzato sulle gambe, corde a spalla, posizione di sicurezza.
«Angelo, come stai?»
«Io benissimo, perché? Attento, lì si parte».
«Ti senti proprio bene?»
«Ho detto di sì, che ti piglia?».
Torno su, gli racconto tutto. Non mi crede, ora l’effetto dei fulmini si manifesta in modo diverso.  Gli cedono i nervi. Mi insulta per la mia precipitazione, dice che ho sbagliato cresta, che ormai dovremmo essere al Cavallo di Bronzo… Abbiamo ambedue i nervi a brandelli. Ci aggrediamo a parolacce come due scaricatori di porto. Ci prendiamo a schiaffi. Io devo vendicarmi di tre ore di fatica e di terrore. Giù, ancora.

La cresta sembra non finire mai. Tutta è uguale, tutta scompare nell’ ovatta più grigia. Non ritroviamo i punti caratteristici di riferimento, ci abbassiamo troppo verso sud. Ci siamo smarriti. Sfiniti e sfiduciati ci sediamo nella neve. Scorgo una chiazza oscura nel bianco della neve fresca. Mi metto freneticamente a scavare con le mani nude finché non incontro la neve vecchia, quella dura, quella che reca ancora l’impronta di un piede. Sono ormai le sette di sera, non possiamo perdere altro tempo, non ce la sentiamo di scendere il ghiacciaio al buio, né possiamo affrontare un bivacco nelle nostre condizioni. Non riusciamo a ragionare lucidamente. I fulmini hanno inciso molto le nostre facoltà mentali. Continua la ricerca, scavando. Riesco a trovare una traccia, un’altra ancora. Riesco a seguire la pista esatta. Dobbiamo imboccare il canalino, dobbiamo imboccare il canalino, dobbiamo…

Il vento si fa leggero. Un soffio diverso. Ci arrestiamo col fiato sospeso. Vediamo la nebbia scivolare lungo i fianchi del monte, lentamente, lentamente, scorgiamo ora in basso il ghiacciaio, la fine della cresta, la Sella di Pioda. Sopra di noi l’ultimo raggio di sole al tramonto. Ci ferisce gli occhi tra le nubi spezzate. Crudelmente. Ci gettiamo come pazzi nel canalino e piombiamo sulla Sella di Pioda assieme ad una slavina. Ne usciamo per tempo, prima che quella si insacchi nella crepaccia terminale. Alle venti siamo in marcia lungo l’alto circo del ghiacciaio di Predarossa, neppure ora ci siamo fermati a lungo per mangiare, non ne abbiamo il tempo. Abbiamo solo bevuto una borraccia intera di thé freddo. Scendiamo nella neve molle, nelle pozze d’acqua nascoste, inebetiti al punto da passare sui ponti di neve delle crepacce senza alcuna sicurezza, affiancati. Ancora un poco. Passiamo a sinistra. Mezza costa. Il sentierino per la Desio.

Nelle nostre condizioni fisiche e mentali avremmo fatto meglio a guadagnare la Capanna Ponti, all’altro lato del ghiacciaio, evitando la dura salita alla «Desio». La «Ponti», per noi, in quel momento, è l’ignoto. La «Desio» invece è l’amico, gli amici che ci aspettano e ai quali ci affideremo per uscire da questo torpore, che calmeranno le nostre paure. Le folgori, per me, continuano e spesso mi colgo ad urlare. Fantasie. Dalla «Ponti» qualcuno lancia richiami. È il custode della Capanna. Domani verrà fino alla Bosio per sapere e per congratularsi con noi. Ora non abbiamo il tempo, la volontà, la forza di rispondere. Su. Sassi, tanti sassi, instabili sotto i nostri piedi. Fermiamoci. Ancora uno sforzo. Gli ultimi metri sono compiuti a quattro gambe. Il piazzale, la porta. Chiusa.

Nessuno di noi riesce a ricordare che la chiave è appesa poco distante. Inoltre, io non voglio restare solo, non voglio stare con Angelo, non voglio che altri siano in pena per noi. Devo scendere alla «Bosio», devo avvisare che siamo vivi, interi, vivi, vivi. Giuseppe, infatti, ci aveva atteso fino a tarda ora, scrutando il ghiacciaio laddove esso appariva di sotto il livello delle nubi. Alla fine se n’era andato per preparare il soccorso, dalla «Bosio». Pochi istanti dopo noi sbucavamo sulla Sella di Pioda. Ci avrebbe visti. La notte ormai ci avvolge. È venuta anche la pioggia. Andiamo giù. Le torce sono esaurite. Percorriamo la distesa di blocchi ammassati nel vallone, cercando di non finire in qualche buca, gli occhi fissi nel buio. I nervi sussultano violentemente e giocano brutti scherzi. Mezzanotte. Mettere un piede dopo l’altro e camminare. Di tanto in tanto balenano lampi e noi saltiamo urlando. Tutto falso, sono i nostri nervi. Le caviglie non reggono più e a volte ci troviamo distesi, per terra. Sento frusciare l’erba sotto le scarpe. Siamo al termine della ganda, ora comincia il sentiero. Mi trovo lungo e disteso nel torrentello. Non lo ricordavo più.

Angelo mi chiama. Non lo vedo. Mi dice di non lasciarlo solo. Non lo posso attendere. Devo scendere, devo scendere, devo arrivare, presto, devo vedere qualcuno, devo parlare con altri che non sia Angelo, devo sentire caldo, avere luce. Devo, devo, devo. Mi metto, a tratti, a cantare, non canzoni allegre. Forse non ho più la testa in ordine. Il fulmine mi ha segnato assai più di quanto pensassi. Angelo è l’ombra di un uomo. Sulla piana erbosa che porta al rifugio, viaggiamo a zig-zag. Per due volte finiamo nel torrente. Bagnati dal disotto e dal disopra, arriviamo a cento metri dal rifugio. Crolliamo. Dopo due tentativi inutili riusciamo a farci sentire. Luminaria improvvisa nel volto oscuro della notte. Fantasmi bianchi di ragazze in camicia da notte. Forzati a strisce gli uomini in pigiama. Persone semi-vestite verso di noi… L’orgoglio e la dignità ci danno la forza di raddrizzarci e compiere gli ultimi passi eretti, fieri. Intravedo il volto di mio cugino, sento le mani di Giuseppe che mi tolgono lo zaino dalle spalle, da ventiquattro ore sulla schiena. Ci siamo. La porta. Dentro, sulle panche, in cucina.

C’è luce, c’è caldo, ci accorgiamo di essere interi e a casa. Gli amici chiedono, ci spogliano, dicono della loro preoccupazione, ci danno da mangiare, ci medicano, tornano a chiedere. Tutto in una volta. Mi accorgo di avere la mano destra semi-congelata. Non si contano le ferite che abbiamo sulle mani, sul volto. Le caviglie di Angelo sono enormi, gonfie da far paura. La nuca, il collo, una spalla sono strinate dal fuoco. Malgrado ciò si può considerare un miracolato. lo pure. Siamo a casa. Le parole, prima lentamente, poi a fiotti, ci escono di bocca, non sempre ordinate, non sempre logicamente connesse. Il canalone, l’attacco, le rocce che ci hanno impegnati per tante ore, quegli attimi orrendi e spaventosi della vetta, la pazzia di Angelo, il ritorno. Ora siamo rotti, sfiniti, ancora il fulmine è dentro di noi. Fino a pochi istanti fa abbiamo imprecato, ci siamo sentiti di odiare quelle rocce, quelle nevi.

Ora io so, ed anche Angelo, che fra due, tre giorni, non appena rimessi dall’avventura e dalle ferite, saremo nuovamente attorno ad abbrancare appigli, a scalinare nevai e canaloni, a fuggire, forse nuovamente, tra le tormente. Saremo là per soddisfare la nostra passione senza imporci mai un «perché» di questo correre sulle montagne. Saremo lassù per vivere. Unicamente.


Sui vetri della finestrella, nella camerata, batte di tanto in tanto la pioggia. Sulle lamiere del tetto risuonano le gocciole che, sulle rocce, si riuniscono in cascatelle sonanti. Tra i larici inquieto s’aggira il vento. Rumori, suoni, armonie che ci accompagnano nel sonno. Il giorno dopo, abbiamo dormito tredici ore filate, scesi in sala da pranzo trattenendo i lamenti per i vari dolori del corpo, assistiti dagli amici e da Giuseppe, tracciamo a penna sulla fotografia della parete Sud del Disgrazia, la nostra via «direttissima».

La dedichiamo, quale omaggio a tutte le guide ed i portatori di Valmalenco, alla memoria di uno di loro, «Polo» come lo chiamavano in vita, perito in montagna qualche tempo prima. È giunto il momento, anche per Angelo e me, di stringerci la mano, come avremmo fatto in Vetta alla nostra montagna.

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NOTA: un caro e sincero saluto, e ringraziamento ancora,  all’Amico Lorenzo Castelli, Alpinista, che “qualche” anno dopo ha voluto ripetere quest’ascensione pensando proprio a ciò che fu questa “Prima”
Qui il racconto con le foto

Ci sono 0 commenti

  1. Giovanni Fatighenti

    Mi sembra di aver vissuto con loro l’apertura della via.Storia di montagna incredibile, scritta in modo magistrale.Nei 10 minuti che mi son preso per leggere il post, quasi ho perso di vista il monitor e le quattro mura che avevo intorno a me, tanto ero assorto e immerso a “vivere” la lettura di questa avventura stupefacente.
    Ottimo lavoro, emozionante.
    Giovanni

  2. luciano bernardi

    Ciao Alberto. Proprio non molto tempo fa passai su queste pagine con grende emozione grazie al libro, dono del tuo Papà, che conservo gelosamente. E ricordo con nostalgia la bella grande gita al Bernina con gli alpinisti del Coro Cortina guidati dal loro grande Maestro.
    Luciano

    • Alberto Bregani

      🙂 Sempre molto carino Luciano, ti ringrazio. Chissà che un giorno non si possa ritornare insieme da quelle parti… va a sapere. Per ora grazie ancora per essere passato di qua, ti aspetto ancora e mando un grande abbraccio a te e a tutti i nostri comuni amici. Ci vediamo a Cortina nei prossimi mesi, CIAO! 😉

  3. Adriano Trucano

    Tra i miei tanti libri, conservo gelosamente un manoscritto di papà Giancarlo,
    corredato di foto durante le scalate, dedicato al Colonnello Gustavo Rambaldi,
    con l’aggiunta di una dedica:
    Ai miei Genitori, perché son TUTTO;
    Ai miei veri amici, perché son TALI;
    A tutti gli alpinisti, perché son LORO;
    A MANUELA
    dedico questo libro.
    Gallarate 1955, marzo.
    Il titolo è: “Un Racconto Inutile”
    Penso sia una copia unica, e gradirei sapere se ha valore commerciale.
    Adriano


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