Giuseppe, guida alpina

Giuseppe, guida alpina

Racconto tratto da “C’è sempre per ognuno una Montagna” di Giancarlo Bregani ( 1930-1987)
Premio Maria Brunaccini letteratura di montagna 1967) Per scaricarlo e leggerlo in pdf clicca QUI

Giuseppe, un metro e sessanta di statura, centodieci di torace, un fisico indistruttibile, un cuore d’oro puro, di professione Guida alpina. È questo il ritratto del mio primo maestro in montagna, lui diciassette anni, io sedici non compiuti. Ma, tra noi due, almeno un decennio di differenza. La sua vita è incominciata non appena le gambe hanno saputo reggerlo sotto un carico; la mia, secondo lo schema classico del cittadino che va a scuola, ginnasio, liceo. Giuseppe, un metro e sessanta di statura, due polmoni incredibili ed una forza spaventosa.

Pressoché coetanei quando ci presentarono l’un l’altro, ma d’un subito più vecchio lui per me non appena mi dissero che era un Portatore, una specie di guida alpina. Avevamo raggiunto il rifugio, alcuni amici ed io, a notte ormai inoltrata. Dentro era zeppo di gente. Ferragosto. Trovammo appena il posto per stendere due magri materassi a terra e passare la notte lì. Essendo ancora alle prime esperienze con i sentieri nulla avevamo in programma per il giorno dopo. Mi stesi al mio posto e cercai di dormire. Uno dei miei compagni mi venne accanto presentandomi un ragazzotto tarchiato, dal volto squadrato, cotto dal sole. Giuseppe, appunto. Guida alpina.

Tutto quello che avevo letto sulle Guide mi si ripresentò alla mente e pensai subito all’essere superiore, all’individuo dal passo sicuro che domina gli abissi, che ascende le montagne con assoluta padronanza dei suoi mezzi fisici, con l’animo sereno e puro. L’uomo avvezzo a discorrere, da pari a pari, con le aquile e con le tormente. In una parola, l’eroe invidiabile. Diventammo ben presto amici ed egli mi insegnò i primi rudimenti dell’arte di arrampicare, mi caricò di pesi, mi fece correre su e giù per sentieri, ghiaioni, nevai, mi confidò alcuni segreti della montagna. Imparai non solo ad andare in montagna, ma anche a conoscerlo, a conoscere la sua vita.

Aveva diciassette anni e lavorava duramente, sia quando portava cordate sulle diverse cime sia quando non doveva arrampicare. Aveva diciassette anni e dormiva sei ore al massimo per notte. Il resto della giornata era fatica, sudore, lavoro, carichi da portare fin lassù dal paese, legna da spaccare, tetto da riparare, sentieri da sistemare, bestiame da accudire, acqua da andare a prendere, gente inesperta da accompagnare in gita o in ascensione e rischiare la tua vita perché la loro resti integra. Aveva diciassette anni e gioiva di un momento di pausa durante il quale poteva parlare con noi ed ascoltare episodi della vita cittadina. Diceva: tra qualche anno andrò militare ed allora sì che potrò godermi il mondo fuori della valle. Aveva diciassette anni ed erano ancora in sei in famiglia, ma quattro eran donne ed il padre, famosa guida, già accusava il peso degli anni e di una vita ancor più grama della sua. Era quindi lui l’uomo su cui gravavano i lavori più duri. E non che le donne guardassero lavorare.  Aveva diciassette anni, poi ne ebbe diciotto, diciannove, venti. Ma la sua vita era sempre quella.

All’inizio gliela invidiai, quella vita, sempre in montagna; gli invidiai la possibilità di scalare quelle montagne che io avevo appena conosciuto. Per me Giuseppe era un fortunato. Quella stessa notte che lo conobbi, allorché lo svegliarono poco prima dell’alba, dovendo partire per il Disgrazia con alcuni clienti, lo sentii chiedere: «Com’è il tempo». Gli dissero che era splendido. Rispose peccato, speravo piovesse. Non riuscii a capirlo. Era quella la diciannovesima volta consecutiva che ripeteva le stesse cose, ma ogni volta con persone diverse, quasi sempre sconosciute. Alzarsi a notte fonda, accendere il fuoco, preparare qualcosa di caldo per i clienti, prendere lo zaino facendo attenzione che non manchi nulla, partire, per nove, dieci ore andare su per ghiacciaio, cresta, parete, arrivare in vetta, fermarsi, indicare ogni punto del panorama, scendere, tornare al rifugio, prendere i pochi soldi della tariffa, cinquemila lire, accompagnare a volte i clienti ad un altro rifugio, quello più a valle e allora caricarsi di coperte, di viveri, di legna al viaggio di ritorno, per non fare un viaggio inutile, ed arrivare nuovamente al rifugio prima di notte per ricominciare daccapo il giorno appresso.

lo che lo invidiavo non compresi allora perché fosse così poco entusiasta del suo lavoro. Negli anni successivi, quando ormai la Montagna mi aveva preso e pervaso, ebbi occasione di vivere molto più a lungo accanto a lui e capii allora cos’era la vita di una guida alpina, cos’era la sua professione in una zona aspra, dove la mondanità non era di casa come poteva essere a Cervinia, a Courmayeur o
a Cortina d’Ampezzo. Vissi con lui estati intere, e la mia giornata fu d’un subito piena anche quando non si andava ad arrampicare e veniva notte che ancora si stava lavorando e non si era finito tutto ciò che c’era da fare . Lavori umili, assai poco nobili, certamente lontani da quelli che gran parte della letteratura ha attribuito alle guide alpine, che alcuni film hanno pennellato con tanta arte ma assai poca verità. Alla fine dei due mesi scarsi di «stagione», tirare le somme dei compensi percepiti come guida e degli incassi come gestore del rifugio grande e di quello piccolo: il totale da dividersi in sei persone per dieci mesi, con la sola prospettiva di arrotondarlo lavorando d’inverno come boscaiolo o come scalpellino. Un giorno dopo l’altro per anni ed anni, da quando ne aveva pochi ed era appena capace di stare in piedi sotto il peso di uno zaino carico e camminare.

«Giuseppe, perché non andiamo fuori di qui, potremmo andare nel Bianco assieme, tu ed io. Ti pago le spese e la tariffa, ovviamente».
«Mi piacerebbe, potrei divertirmi anch’io. Ma non si può».
«Perché»?
«Ci vogliono troppi giorni, tra l’andare fin là, fare le scalate e tornare. Chi porterebbe i viveri, la legna, il vino, la posta, e tutto quanto, al rifugio?».
«Giuseppe, se non esci dal tuo buco, se non ti fai conoscere come guida in gamba, se non ti fai un nome, finirai presto, e non lo meriti, perché sei molto bravo. Devi conoscere altre montagne».
«Lo so, mi piacerebbe tanto. Ma purtroppo non è possibile».

Un giorno dopo l’altro, per tanti anni. Lo ammiravo. Lo ammiro ancora ed ancora di più di quando lo credevo incoronato dell’aureola di gloria della «guida alpina». Lo ammiro e gli voglio ancor più bene poiché se tale aureola è scomparsa come retorica più banale, ora egli è immerso nella luce dell’uomo vero, che lavora, che si sacrifica, continuamente, ad ogni istante della sua grama vita, per gli altri. Giuseppe non rappresenta l’eccezione. Giuseppe appartiene alla schiera delle guide alpine che non hanno potuto godere dei vantaggi del progresso poiché il progresso non ha ancora scelto la loro zona; perché i mezzi meccanici di risalita non hanno ancora invaso le loro montagne trasformandole in centri estivi e invernali attrezzati e alla moda; perché non hanno avuto modo di trasformarsi in guide turistiche o maestri di sci «à la page».

E sarebbe giusto che ciò avvenisse dappertutto anche se ciò urta il nostro senso mistico della montagna e, spesso, il buon gusto estetico. Malgrado ciò, malgrado l’abbandono che si vien vieppiù accentuando man mano che la gente preferisce arrivare comodamente alle alte quote, Giuseppe, come gli altri, non ha perso il suo sorriso aperto e buono dei vecchi tempi. Costante è rimasto il suo carattere, forse un poco più disincantato, senz’altro più amareggiato. Per questo suo carattere, per questo suo volto sincero, per questa sua non supina rassegnazione che è solo accettazione di una esistenza che è «sua» e che deve portare a termine degnamente, io gli ho voluto bene, e glie ne voglio, come un fratello.

S’affollano i ricordi e si confondono nel tempo. Ricordo quando venne su dal paese, poco più che ventenne, milletrecento metri di dislivello su un sentiero aspro, portando sulla schiena, sulla nuca china, una enorme cucina economica di ferro e ghisa, novanta chili secchi secchi e un ingombro impressionante. Venne su in cinque ore, quando il tempo normale, per noi, poco carichi, era di circa tre ore e mezza. Venne su in cinque ore non potendo mai fermarsi e riposare: non aveva con sé alcuno che potesse poi aiutarlo a ricaricare la stufa sulle spalle. Continuò così a camminare, passo dopo passo, teso, duro ed ingrugnito. Lo stavamo aspettando e lo aiutammo a scaricare la stufa ed a portarla nella cucina del rifugio. Grondava sudore da ogni parte, povero Giuseppe. Si buttò sull’erba appena fuori il rifugio, disse, «sono un po’ stanco», e si addormentò. Nel tardo pomeriggio arrivarono tre persone che volevano «fare» il Monte Disgrazia per la via normale. Giuseppe rivestì i panni della guida, prese i suoi arnesi, si caricò dello zaino con i viveri e tutto quanto e, tanto per non fare un viaggio a vuoto, si mise sulle spalle anche due materassi destinati al rifugio piccolo lassù ai quasi tremila metri del Passo di Cornarossa, e se ne andò, con i suoi clienti. Per quella giornata, altre due ore sane di cammino con cinquanta chili sulle spalle. Quando si discusse con lui il problema del trasporto della famosa cucina economica, affermò che non esistevano difficoltà. L’importante era «mettersela
bene sulla schiena». E così fu.

Lo ricordo durante le ascensioni che facemmo assieme. Aveva il piede sicuro, un senso dell’equilibrio incredibile, perfino in valle era rinomato per questo. Godeva nel prendermi in giro quando scendevo per certi paretini poco inclinati usando le mani per appoggio. Lui scendeva fronte al vuoto, lasciandosi quasi scivolare sui chiodi delle sue antiche scarpe ferrate. Mise le prime «Vibram» solo dopo la naja alpina e perché il suo capitano gli regalò un paio di scarponi degni di tale nome.  Conservò per anni nel portafoglio un biglietto di banca da cinquecento lire, anche questo un premio del suo comandante, non so più per quale motivo. Quelle cinquecento lire, valevano più di una medaglia d’oro, e non le spese mai, neppure nei momenti più duri, anche se, con quelle, avrebbe potuto comprarsi tre pacchetti di tabacco per arrotolarsi le sue pestifere sigarette.

Ricordi, tanti ricordi, ed è strano averne tanti di una persona ancora viva, di soli trentotto anni, che ogni anno, puntualmente, forse anche per un giorno solo, vado a trovare e ad incontrare. Ma ciò non è più strano se penso a cosa è stato Giuseppe per me, in questa mia seconda vita. Non lo è più soprattutto perché quegli anni avevano un sapore diverso da oggi ed è quel sapore, quel clima, quei sentimenti, quegli amici, quelle ascensioni, quei discorsi, quegli attimi di vita che desidero conservare tali e quali attraverso i ricordi su Giuseppe.

Una forma d’egoismo quindi, questo ricordare l’amico? Può essere. Ma è proprio l’amico, un metro e sessanta di statura, centodieci di torace, un cuore grande così, che rappresenta in realtà tutto ciò che fu la mia vita in montagna tanti anni fa.

Una cosa sola.

Ci sono 0 commenti

  1. Giovanni Fatighenti

    Parole utilizzate magistralmente come al solito.Riesci a farmi viaggiare e a farmi provare quella sensazione di “essere in montagna” in ogni tuo racconto.Grande Alberto!

    • Alberto Bregani

      Giovanni, allora “come al solito” grazie a te per il pensiero 🙂 vorrei precisare però, per non attribuirmi meriti non miei, che i racconti assolutamente veri e vissuti in prima persona ( penso lo si percepisca …) sono di mio padre, non miei. e’ esplicitamente scritto in apertura di ogni post. Immagino tu lo sappia però una volta di più non fa mai male. Quindi tutto ciò che dici a riguardo viene imbustato e spedito via etere… al di sopra delle nuvole. E’ li infatti che papà ora vive, insieme a tanti altri suoi amici e compagni di cordata, dal 1987. Sono certo non se la passi poi tanto male: lì le montagne sono alte e infinite 😉 Un caro saluto!! Alberto

      • Giovanni Fatighenti

        Ciao Alberto, si sapevo che i racconti sono di tuo babbo, forse mi sono espresso male nel post precedente, effettivamente hai fatto benissimo a precisare; comunque le parole che scrivo valgono sia per te che per tuo babbo, insieme formate una coppia straordinaria di persone talentuose in montagna, dietro una macchina fotografica e con carta e penna:pubblicando i racconti di tuo padre, in qualche modo ce lo fai conoscere a tutti noi:mi regalate dei momenti unici lo dico sinceramente. Un abbraccio Giovanni.


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